La passio di Carlo Ragliani ne “Lo stigma” (Italic, 2019)

La passio di Carlo Ragliani ne “Lo stigma” (Italic, 2019)
a cura di Luca Cenacchi

Carlo Ragliani pubblica Lo Stigma nel 2019 per Italic Pequod, un’opera prima che si contraddistingue come hapax rispetto agli orientamenti della produzione giovane, andando ad arricchire ulteriormente un panorama già incredibilmente sfaccettato.
La misura del verso è modellata sul respiro contemplativo della raccolta, la cui essenzialità è proporzionale all’accuratezza con la quale le parole sono pesate sulla bilancia di uno o massimo due respiri sintattici.

Attentamente soppesate sono anche le figure, che forzano i confini del verso, il cui ritmo pare sempre frenato grazie all’uso di sdrucciole a fine verso, come appare evidente sin dalla prima poesia, «Nascere» (pp. 15):

– Nascere
soli
e soli andarsene
ormai la solitudine
annoda la carne
alle amputazioni
guarendo
per seconda intenzione.

 Essenziale sarà chiarire una biblioteca immaginaria, al fine di comprendere la reale portata innovativa della raccolta. Essa si apre con due citazioni bibliche: Genesi 4:15 e Giobbe 5:7. La scelta della traduzione ci parla già chiaramente del primo referente testuale: Ragliani ha deciso di utilizzare la traduzione riveduta ovvero quella usata per lo più dalle confessioni protestanti ed evangeliste. Allo stesso tempo i due passi prescelti dalle scritture prefigurano già il tema generale della raccolta, ovvero l’opera in versi di un uomo obbligato a vivere (il segno di Caino) e nato per soffrire (Giobbe), già presenti in nuce nel componimento in apertura qui riportato.

Il libro offre una trattazione poetica, dunque non rigidamente teologica, principalmente legata al tema di chi riesce ad affrancarsi attraverso la sofferenza, relativamente alla quale si innesta quello della solitudine che, seppur coerente con Giobbe – giacché si può dire che egli soffra e nella sofferenza sia solo (Giobbe 6: 15-17; 6: 21), dimostra di declinarsi in maniera interessante, prendendo in considerazione temi esistenziali di marca prettamente contemporanea, come ha evidenziato Mario Famularo nella sua prefazione.

Successivamente, troveremo un confronto con l’Innocenzo III di De Contemptu Mundi, dal quale si riprenderanno, attraverso l’uso di variatio, alcuni topoi cardine della concezione cristiana relativa alla miseria hominis quali la nudità, la povertà e l’inutilità dell’uomo, nella prospettiva anche, ma non solo, di un commiato ascetico sul modello dei padri del deserto.

La solitudine, che spesso ritorna nel libro, è a un tempo causa ed effetto ed ha una doppia valenza semantica: da una parte è la solitudine relazionale di cui parla Famularo, dall’altra è anche il consapevole congedo in cui ci si affranca dal mondo, per avere una prefigurazione anticipata del reame divino – così come fecero i padri del deserto, i quali hanno sottolineato l’estraneità del regno divino a quello terreno, ponendo una divisione ineliminabile – interpretata successivamente anche in modo radicalmente negativo. Lo si nota bene nel componimento successivo al precedente proposto «Libertà» (pp. 16):

– Libertà
sintomi
dell’abbandono
assenza
che porta un legame
maturato anzitempo
sindrome
di un’esistenza ormai spesa
tra le crepe
del congedo.

È a questo congedo e all’immaginario dei padri del deserto che si riferisce «Apostasia» (pp. 94). Alla luce di questi elementi si ritiene che le fondamenta della raccolta siano da rinvenire in un approccio per lo più evangelico – anche se non si rifiuta l’apporto della patristica (come si vedrà, viene ripreso almeno un passo da ad Martyres di Tertulliano), mentre lo spossamento ininterrotto, l’isolamento e la mortificazione corporale si rifanno a Giobbe:

– Apostasia
essenziale
per essere il vangelo
mentre solo il deserto
benedice
chi esita per restare
osserva un prodigio
trasecolare
nelle fiale dei giorni
lo spossessamento
ininterrotto.

Tuttavia, se il modello è quello del libro biblico, è allora a quest’ultimo che si riconduce il disprezzo del mondo? Nell’ambito di un colloquio con la madre, che esprime un effettivo disprezzo verso il mondo terreno (sulla scia di autori come Innocenzo III, il quale è la più alta espressione del genere), Ragliani non compie una ripresa retorica tradizionale della maledizione del giorno della nascita, piuttosto non si esime dal percepire anch’egli il dolorem di cui parla il controverso Papa.
Questa sofferenza è la solitudine, che si sostanzia anche in indifferenza – ed è qui che si compie una interessante innovazione: in «Madre» (pp. 30), la coscienza dell’abbandono viene sostituita al dialogo con la madre e all’amore materno, cui si appellava nel discorso incipitario del De Contemptu Mundi Innocenzo III:

– Madre
l’amaro delle gocce
si perde
tra i passi compiuti
nell’assottigliarsi
della stasi
apprendere l’abbandono
l’anatomia
dell’inesistenza
ove il seme
si spegne.

L’abbandono si riflette anche in un’indifferenza mortificante: il tentativo di innestare la coscienza di questo dramma sulle formule retoriche derivate da Giobbe è il vero dono che Ragliani fa al lettore dal punto di vista letterario:

– Mortificare
il sangue
è occupare
il dramma d’indifferenza
reciproca
di chi scende come tutti
tra le ombre fitte
verso l’unico conforto
possibile.

Quello del Padovano, dunque, sarà un Giobbe cosciente della propria sofferenza solitaria: conscio di non poter dialogare, si esprime attraverso una concatenazione di infinitive, che è l’espediente sintattico attraverso il quale l’autore a un tempo rimuove, letteralmente, l’io dal testo e rappresenta la solitudine che lo tortura.

Oltre questo, come si evince dalla citazione biblica in esergo, egli è costretto a vivere come «chi scende come tutti / tra le ombre fitte». Queste ombre non sono altro che il mondo, immagine ripresa sulla scia di Ad Martyres di Tertulliano: «Maiores tenebras habet mundus» – ed è solo al fondo di questo essere che si potrà compiere interamente il percorso, e trovare l’unico conforto: obbiettivo di cui si parlerà successivamente.

Dunque Ragliani mette in evidente parallelismo l’ombra fitta, da una parte, come tradizionale prefigurazione del mondo, e la rappresentazione più evidente del proprio dramma di indifferenza collegato alla vanitas, dall’altra.

Questo libro dunque non propone una pletora di riferimenti letterari, ma li interpreta attraverso la variazione, affinché possano essere fecondo strumento per approcciarsi alla realtà.
In questo senso formule come scoprirsi miseri in «Nudità» (pp. 47) si possono leggere, certamente, anche come ripresa del topos della nudità come miseria e povertà, sempre presente nel De Contemptu Mundi: «Nudus egreditur et nudus ingreditur; pauper accedit et pauper recedit», al quale si connette il motivo dell’incapacità, ovvero l’impossibilità di dare o di sottrarre qualcosa al mondo: «Nichil intulimus in hunc mundum; haut dubium quia nec auferre quid possumus». Non ci si può esimere, tuttavia, dal considerare altri aspetti quali la «liturgia dell’assenza» in «Miserere» (pp. 60), e come essi dialoghino con riferimenti tradizionali de «l’attimo sterile», ovvero la rielaborazione della concezione cristiana della mondanità: «vanitas vanitatum et omnia vanitas».

– Miserere
nel silenzio
l’infrangibile sentenza
all’altezza di un aiuto
inconcesso
per fissare l’attimo sterile
e perdere tutto
nella liturgia
dell’assenza.

L’aiuto chiesto, ma non concesso, nella speranza di eternare la vanitas terrena, viene suturato nella formula innovativa della liturgia dell’assenza, soluzione che può riferirsi tanto alla sfiducia verso l’impermanenza terrena in cui si perde tutto, in funzione della necessità di un sacrificio totale del sé, tanto alla manifestazione del culto pubblico dell’assenza dal mondo, oppure, infine, verso tutto ciò che è assente o ex mundo.

Tutti questi elementi sono tappe di un percorso preciso di sofferenza, in cui l’intercessione è invocata ma mai realmente contemplata. L’uomo – così pare riflettere Ragliani – è abbandonato ad una passio continua: «il reticolato di croci / e patiboli / non rappresenta/ che una devozione / devoluta» in cui la devozione (devotio, derivato di devoveo: offrire in voto o espiazione, votarsi, sacrificarsi, etc.) si sovrappone alla devoluzione (devolvo, composto da de + volvo, che ha anche l’accezione tecnico-giuridica di trasmettere): allora la sopravvivenza è da intendere nel senso etimologico (supra vivere, vivere sopra), e la partenza è da intendere anche come offerta del sé. Questo emerge chiaramente in «Distanze» (pp. 86):

– Distanze
incise nei secoli
suggeriscono
l’annichilimento
nel conforto dell’ironia
ogni partenza
è identificarsi
con quanto sopravvive.

A legittimare questa ipotesi è la stessa conclusione del libro: «La disciplina richiede sacrificio. Il sacrificio sei tu.»

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