Debora Petrina. La bambina che vede oltre

mic a terra

Perché scriviamo? Perché ci piace raccontare. E perché facciamo interviste? Perché amiamo indagare, scandagliare, confrontarci. E raccontare.
Personalmente, sono affascinato da quegli artisti che non riesco mai ad afferrare. Se anche catturo qualcosa della loro espressione artistica, ecco che mi sguscia rapidamente via, portando a galla qualcos’altro della loro essenza. Debora Petrina, in arte Petrina, è una di questi. E dev’essere così per molti, dato che spesso la sua musica viene descritta come qualcosa che ha a che fare col jazz, elemento che io invece non trovo. “Non c’è nulla di jazz nella musica che faccio – mi conferma Debora – forse la spiegazione di certe descrizioni sta ne l fatto che oggi il jazz si prende carico di contenere tutte quelle inflessioni musicali che non trovano una descrizione propria o più canonica”.
Una volta mi sono ritrovato a descrivere estemporaneamente la sua musica come una figurina cangiante, una di quelle che trovavo nei formaggini quando ero piccolo e che, a seconda del punto di osservazione, modificano la propria immagine. Nonostante le possibilità oggi offerte dalla tecnologia, è un effetto che continua a sembrarmi magico. L’intervista con Petrina non ha perciò la pretesa di cristallizzare qualcosa di lei, semmai di restituire un po’ di questa caratteristica cangiante col prezioso arricchimento del suo punto di vista. Petrina, che ama andare in bicicletta scomparendo nei boschi per trovare pace e ispirazione, è un arco teso tra la classicità dei suoi studi musicali al pianoforte e il bisogno di avanguardia, ambito con cui ama contaminare la sua musica; che però mantiene un linguaggio afferrabile, cercando sempre di accogliere, coinvolgere e aggregare. Curiosamente, è lei stessa ad avallare questo mio punto di partenza, raccontandomi un interessante aneddoto.

solitude (ph Alice Caruso)

“Ero destinata a fare la pianista classica, avevo tutte le possibilità, perciò mi sono iscritta a un seminario tenuto da un componente della giuria del Premio Chopin di Varsavia, forse il più prestigioso concorso al mondo. Durante il workshop, questo giurato mi disse chiaramente che io possedevo il “quid chopiniano”, su cui certo bisognava lavorarci tecnicamente, ma la qualità di base era evidente. Ecco, io da lì sono scappata a gambe levate. Ho sentito, forse inconsciamente, che quello non era il mio percorso, cosa che man mano è diventata anche più chiara. L’interpretazione e lo studio canonico non facevano per me, quindi ho trovato così la mia via di fuga. Avevo bisogno di dare un senso diverso alla mia identità”.
Il percorso di Petrina si è evoluto qui continuamente, riconciliandosi con diverse espressioni legate alla musica, soprattutto la scrittura di testi, di partiture moderne e la danza. Una delle apoteosi di questa evoluzione è stata certamente l’aver co-firmato un brano con un artista di musica colta che nemmeno è più in vita, John Cage. La canzone, “Roses of the Day”, che dà il titolo al penultimo album dell’artista padovana è la ricomposizione di un brano di Cage la cui partitura è pubblicata in tutto il mondo a nome Cage-Petrina da Peters (NY), l’editore ufficiale di tutte le opere del celebre compositore americano scomparso nel 1992.
Per un dovere di gratitudine verso la rivista che ospita questo articolo, a chiacchierata con Debora prende le mosse parlando di poesia.

Qual è la tua idea di poesia e in che modo finisce per colorare la tua musica?
La poesia è un medium che salta le logiche del linguaggio comune e punta dritto a canali più profondi, in cui le parole attivano associazioni ed immagini che conducono al di là del loro significato verbale. In questo senso è molto simile alla musica. Non so se posso definire poesie i testi da cui parto per scrivere delle canzoni, ma di sicuro cercano di essere un mezzo espressivo, non descrittivo, per entrare in connessione profonda con l’inconscio; evocano immagini più che pensieri razionali, un po’ come i sogni. Anzi a volte i miei testi partono proprio da sogni.

primo piano 2

Come vedi tutto questo oggi espresso nell’arte e nella cultura? Che ruolo ha l’artista e che ruolo ha il pubblico? Ci pensi mai mentre componi o suoni?
Sicuramente oggi la musica non è più un veicolo a sé bastante, e ha bisogno di essere ‘riempita’ di contenuti di altra provenienza (i visual ad esempio, di cui si fa largo uso). E’ una questione che sento molto, forse perché ho sempre cercato vie molteplici di connessione al pubblico, dalla parola alla performance vera e propria. A volte non serve, a volte è lo stesso corpo/voce/viso dell’artista che comunica, ma questo dipende da molti fattori, anche dal luogo stesso in cui avviene lo show. Mi è capitato di suonare su di un piano verticale, da sola e quasi di spalle, dunque senza possibilità di lasciare la postazione dello strumento; ma la mia percezione di ‘immobilità’ non è stata quella del pubblico, forse per il contesto, la vicinanza, l’energia che passava… Non è sempre ben definibile quello che passa dall’artista al pubblico, l’importante è che passi qualcosa, che qualcosa venga ‘visto’, anche se con altri occhi.

E questo è un po’ il tema che sta alla base del tuo ultimo disco, “Be Blind”, uscito ormai un anno fa: diventare ciechi per poter vedere meglio ciò che ci circonda, e magari attivare una risposta personale. E’ un concetto esplicitamente politico; contiene anche un messaggio spirituale?
“Be Blind” è un album di emozioni, è viscerale, anche nei testi. E’ quello che mi rappresenta meglio. Il tema centrale è proprio questo, vedere le cose in maniera diversa. Nell’ultimo brano, The Loony parlo di questo matto che è pure strabico e quindi ha un difetto di vista. E’ taciturno, con un passato violento perché, come mi è stato raccontato, violentava le donne. Se ne va in giro con il suo fischietto e probabilmente ha una visione bloccata delle cose. Quando ho scritto questa canzone, anch’io ero bloccata perché, a seguito di un intervento alle corde vocali, non potevo parlare. Quindi mi sono sentita molto in sintonia con questo personaggio: avevo un mondo interiore in completa trasformazione ma non riuscivo a comunicarlo, vivevo anch’io questa sorta di cecità, o meglio, come il matto vedevo cose che comunemente non si vedono, vedevo oltre. Un po’ come Omero.

foto Be Blind 2 (ph Francesca Bottazzin)

Mi piacerebbe indagare con te alcune relazioni connaturate all’espressione artistica, ad esempio tra ambizione e frustrazione, tra espressione pura e condizionamento. Nelle tue performance si assiste alla messa in scena di tutte queste dicotomie, peraltro tu introduci ulteriori elementi (come la danza) che ampliano lo spettro della fruizione e dei rischi. Cosa muove e orienta la tua direzione quando pensi a una canzone o a una performance?
Il tema dell’autenticità dell’arte e dell’artista è un tema assai complesso e difficile da dipanare. Facile affermare che il vero artista è libero da condizionamenti e segue solo le urgenze della sua anima. Ma ogni artista vive in un contesto sociale, storico e geografico da cui non può prescindere. Prendiamo ad esempio i plagi, che la maggior parte delle volte non sono consapevoli. Semplicemente, siamo così saturi di informazioni che non riusciamo più chiaramente a distinguere ciò che è farina del nostro sacco e ciò che non lo è. Per quanto riguarda la mia musica sono consapevole del fatto che è il frutto di tutti gli ascolti a cui mi espongo (o vengo esposta!), ma la ricerca è quella di avvicinarsi il più possibile al nocciolo, a quello che voglio esprimere, e non importa se poi viene interpretato in altro modo, anzi, diventa ancora più interessante. L’ambizione è quella di stabilire un contatto, la frustrazione è quella di un mio vecchio sogno che però ricordo bene: io suonavo e il pubblico piano piano se n’è andato, fino a che sono rimasta da sola!

Come procedi quando scrivi un brano? Hai una metodologia fissa oppure dipende dal momento?
Ogni brano ha una genesi diversa, che in parte rispecchia anche il momento di vita. Alcune canzoni di “Be Blind” si focalizzano su determinate questioni sociali (con risvolti psicologici) e politiche, come il sovraccarico cognitivo dato dall’uso massiccio di internet come riproduttore continuo di verità di segno diverso, o il narcisismo determinato dall’uso dei social. In questo caso ho cercato di approfondire una ricerca su questi temi, leggendo articoli che mi sembravano interessanti; uno di questi è un bellissimo scritto di John Pilger, autore peraltro di un documentario dal titolo La guerra che non vediamo (cosa che ho scoperto dopo aver scritto The War We Don’t See), che leggevo fino a qualche mese fa come introduzione alla canzone; ma il presente cambia così velocemente che le predizioni divengono già realtà. In questo momento invece sono concentrata su temi molto più personali, anche se universali, come il dolore che resta dopo un abbandono; per la prima volta quasi tutte le parole arrivano prima della musica, in forma di pensieri sparsi e annotati in qualsiasi momento della giornata. Poi, piano piano, da una frase o anche da una sola parola scaturisce un’idea melodica, qualcosa che mi dia l’avvio per una nuova canzone, il suo carattere. A quel punto mi siedo al piano e comincio a comporre e arrangiare assieme (nel senso che non sono solo accordi, ma è una stesura musicale già a sé bastante). Via via che procedo il testo iniziale potrà essere modificato, allungato o accorciato.
Fino a che la canzone non è finita il processo continua sempre, la testa torna in qualsiasi momento alla frase, alla parola, alla linea melodica o alla struttura musicale da aggiustare; le armonie sono l’unica cosa che non posso immaginare senza suonarle fisicamente, ma tutto il resto sì. Uno dei momenti più creativi è quello in cui prendo la bici e vado, le gambe veloci e i pensieri liberi; o anche al risveglio, quando la mente vaga ancora in profondità come in una sorta di meditazione, e alcune immagini appaiono più chiare.
Un punto di arrivo è quello in cui la canzone guardata da lontano, ovvero come se non l’avessi scritta io, mi funziona. Ma non è l’unico, perché dopo la stesura per voce e piano seguirà (forse!) un altro arrangiamento. Nel caso di “Be Blind” il lavoro con gli altri musicisti è stato fondamentale per determinare le sonorità dell’album.

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Preferisci la fase di lavoro in studio per la produzione di un album o la performance dal vivo? Che tipo di stimoli e interazioni cerchi di ottenere da chi lavora con te?
Il lavoro di produzione e quello live non sono così diversi come ci si può immaginare: in entrambi ci dev’essere linfa vitale, energia dinamica che scorre. E’ una questione di presenza a se stessi prima di tutto; di grande concentrazione non solo mentale, ma interiore, di adesione profonda al proprio essere. Solo così la musica può dire qualcosa di noi, a noi stessi prima di tutto.
E come la produzione di un disco non ha mai veramente sosta, così anche la messa a punto del live, che, per quanto mi riguarda, è sempre in una fase di evoluzione. La qual cosa può creare grande stress alle persone con cui si lavora. Ecco perché è così difficile scegliere i partner giusti. Suonare assieme è un po’ come stare assieme; ci possono essere i tempi morti certo, ma deve prevalere una grande carica emotiva, uno slancio vitale che metta sempre in moto la creatività.

Non abbiamo ancora parlato di danza…
La danza è un altro elemento non mediato della musica che esprime forse più direttamente il sentire interiore. Quando suono con altri, quando cioè riesco a liberarmi dallo strumento, mi piace improvvisarla, esprimere il qui e ora, seguendo quello che mi suggerisce l’istinto o il contesto. Ma anche se sono al pianoforte ho il bisogno di rendere fisica la mia performance, in qualche modo, suonando a piedi nudi o creando una coreografia nella postura. Credo che questa immediatezza amplifichi il rapporto col pubblico, la ricerca di una connessione.

Quali sono state le cose più belle che ti hanno detto riguardo alla tua musica?
Le parole più belle mi sono sempre arrivate da persone che mi sentivano per la prima volta senza conoscermi, e senza magari avere un particolare background musicale. In generale non mi piacciono i paragoni che mi vengono fatti con altri musicisti, così frequenti nell’ambito della critica musicale, perché sanno di qualcosa che per essere espresso deve riferirsi a qualcos’altro di esterno; come se non si riuscisse a sondare veramente ciò che si pensa, allontanandosi così dal contenuto. Ricordo un ragazzo a New York che mi disse che la mia musica lo faceva pensare a Frida Kahlo. Era un paragone sì, ma sinestetico, e l’ho molto apprezzato. In tempi più recenti qualcuno mi ha dato della sciamana; forse era un po’ azzardato, ma ho capito così che qualcosa di taumaturgico era successo. Se arriva un apprezzamento sincero anche da una sola persona, allora è fatta, ne è valsa la pena. Significa che qualcosa è passato.

Come pensi venga ascoltata oggi la musica? Si è perso un po’ della sensibilità all’ascolto?
L’ascolto della musica oggi è in continuo cambiamento. La musica si semplifica sempre di più, tutto si appiattisce a un paio di accordi standard e a testi che ricalcano quelli di whatsapp, nel rock così come nell’indie così come nel pop ‘colto’. Non c’è quasi più una diversificazione di generi, e l’unico genere che ancora consente una grande varietà al suo interno è proprio il jazz, che non a caso è però un genere considerato colto, e fatto da musicisti che conoscono la musica. Ma c’è qualcosa che ancora fatico a capire: come mai ognuno di noi ascolta e apprezza un brano dei Pink Floyd, magari di 10 minuti, magari in una cover che lo rifà alla perfezione, mentre poi non riesce ad ascoltare una canzone che non abbia il ritornello entro il primo minuto? Forse anche l’ascolto è soggetto a condizionamenti, a giudizi ‘a priori’ che il nostro cervello mette in atto per non avere la responsabilità di esprimere un’opinione autonoma su qualcosa che non sia già stato riconosciuto dalla storia. Credo che l’unica via per invertire la tendenza sia quella di educare all’ascolto fin da piccoli, in casa, a scuola. I bambini, con cui lavoro in alcuni laboratori di composizione, hanno un’enorme serbatoio sensitivo e creativo, molteplici e sorprendenti mondi che aspettano solo di uscire, se stimolati. Partiamo da loro; saranno i musicisti e il pubblico di domani.

Con chi ti piacerebbe collaborare musicalmente, potendo spaziare idealmente anche nel tempo?
Sono cresciuta avendo come modelli musicali i grandi gruppi degli anni ’70, come i King Crimson, i Pink Floyd, i Soft Machine; credo che la sintonia creativa al loro interno fosse molto grande, e non credo componessero in quel modo o in quell’altro per piacere di più al pubblico. C’era una grande libertà espressiva, quasi senza limiti, che ha portato ai risultati che conosciamo. Ora è quasi impossibile proporre un lavoro in questi termini, sia per la mancanza di tempo di noi tutti, sia per le motivazioni che sono totalmente cambiate in relazione al mercato e alle sue richieste. Mi piacerebbe lavorare con persone che si sentissero ancora libere da questi condizionamenti.

Tu hai lavorato con David Byrne, un vero mostro sacro. Cosa hai ricevuto confrontandoti con lui?
Il confronto con David Byrne mi ha insegnato sopratutto che quanto più una personalità è grande tanto più è umile. Byrne ha dedicato un po’ del suo tempo a una perfetta sconosciuta, senza la mediazione di case discografiche o la prospettiva di guadagno; questo è ciò che più mi ha colpito. In generale è ciò che sento nel profondo e cerco anche negli altri: una continua messa in gioco, uno stato per così dire liquido che permette osmosi e cambiamenti, la sensazione di non avere mai raggiunto nulla di stabile, una profonda ricerca ma allo stesso tempo una grande autoironia che ci faccia sempre ricordare quanto siamo piccoli.