Anatomia della luna rosa

Un nuovo libro su Pink Moon manda in frantumi i cliché del biografismo su uno degli autori più saccheggiati e meno ascoltati della musica pop

Pier Angelo Cantù

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Amo la parola “frammenti”. E’ un insieme di qualcosa che deve essere catturato al volo, che non è pianificato, organizzato, strutturato. Qualcosa che non sarà mai afferrato completamente. Un frammento pesca in un territorio che mischia l’immaginario e il reale, si nutre di avvenimenti accaduti e cose magari solo sognate. Associare dei frammenti alla narrazione di Nick Drake è un aspetto che incuriosisce. Qualcuno va dicendo ancora che il ragazzo triste di Tanworth in Arden non sia mai esistito. Robyn Hitchcock, da sempre alla ricerca dei “suoi” fantasmi – che Syd Barrett e Nick Drake incarnano alla perfezione – dice di averlo visto “all’angolo del tempo e del movimento” lungo il Tamigi, e che stava bene (I Saw Nick Drake).

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Ennio Speranza, musicologo, sceneggiatore, drammaturgo, nonché docente in Storia della musica alla Sapienza, insiste molto sul concetto dei frammenti, tanto da usarlo come traccia reiterata per definire e sviluppare l’idea di una narrazione “altra” su Drake. E, in effetti, il suo libro Nick Drake e Pink Moon, una disgregazione, risulta in tutti i sensi una rivisitazione decostruita e frammentata di tutti i cliché che hanno accompagnato fin qui il racconto di Drake. Soprattutto del suo album più celebre, l’ultimo della trilogia più nota agli amanti della musica d’autore. Un disco che mostra aspetti di sé che Drake avrebbe dovuto tenere privati.

Anche Joe Boyd pensava che Drake non sarebbe potuto diventare oggetto di una biografia normale: “Nick non è una rockstar, non ha avuto una carriera musicale. La sua vita era interessante da un altro punto di vista: quello dell’Inghilterra di fine anni ’60, il background famigliare, la sua formazione. Insomma, tutta un’altra prospettiva”.

Fin dall’introduzione, la forma dei frammenti assume i toni di un sussurro a mezza voce un po’ iconoclasta: “Ne ho le scatole piene della retorica post mortem” è l’incipit di Speranza. Non possiamo che essere più d’accordo: Nick Drake è uno degli artisti più funestati dall’approccio edulcorato e consumistico che riscrive la storia artistica delle anime dilaniate oscurando l’atto creativo, per trasformarlo in narrazione biografica a uso del mercato affamato di vittime. Da icona pop a merchandising: ecco servito l’animo umano nella sua parte vendibile. A tale proposito, non stupisce che la title track abbia fatto negli anni da colonna sonora a commercial per vendere automobili tedesche e cioccolatini. O accompagnato le immagini finali di qualche polpettone hollywoodiano ad alto tasso di glicemia.

L’intenzione dichiarata dall’autore è quella di spostare l’attenzione dall’ingombrante biografismo stracolmo di retorica, di fatto eludendolo. La cronistoria degli atti compiuti dal “ragazzo inglese alto e magro” è liquidata in poche pagine. Se è una nuova biografia di Nick Drake ciò che state cercando, non è questo il libro che fa per voi. E’, invece, IL libro per eccellenza se ciò che vi interessa è andare oltre, mettere in discussione gli stereotipi già venduti a basso prezzo, accettando di contemplare con lo sguardo di Speranza l’essenza più profonda di quel Nick Drake. Non tanto dell’autore o del cantante, ma del musicista. Per inciso, a detta di Robert Kirby, arrangiatore delle parti di archi nei dischi precedenti di Drake, musicista dotato di uno stile chitarristico inimitabile: dal tocco alla scelta delle accordature. Uno stile che ancora oggi ha pochissimi rivali e che non si è mai rintracciato nelle tante, troppe, rivisitazioni dei suoi brani. Su alcune delle quali, per quanto celebrate, si dovrebbe stendere il classico velo pietoso.

L’essenza dell’essenza, dato che le analisi del libro si concentrano sul terzo e ultimo album della sua giovane vita, interrotta a 26 anni da un’eccessiva dose di sonniferi. Un disco “forte della sua debolezza” in cui la musica è a sua volta ridotta all’essenza, interpretata dalla sola chitarra, qui più che mai suonata egregiamente e in modo toccante. Con l’unica eccezione delle poche note sovraincise di un flebile pianoforte, nella title track che apre la raccolta. Un’essenza che, se vogliamo, è anche riflessa nell’urgenza dell’atto espressivo, ridotto a due sessioni notturne di registrazione catturate dal fido John Wood, sotto la supervisione dell’illuminato manager e mentore Joe Boyd.

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Da qui in poi – siamo a poco meno della metà del volume – la disgregazione citata nel titolo smette la veste di forma narrativa per diventare metodologia, disamina insieme analitica e poetica, circa l’urgenza musicale che pervade l’album. Canzone per canzone, entriamo nel gioco di specchi (e di significati) tra Drake, la sua vita e la sua arte, incatenate a terra dalla consapevolezza di non poter spiccare l’unico volo possibile, quello di vedersi riconosciuta la grandezza concentrata in una manciata di canzoni. Canzoni che, come sappiamo, non interessano quasi a nessuno, almeno non fino all’arrivo delle agenzie pubblicitarie della Volkswagen, molto tempo dopo. Non a caso, il riferimento di partenza per questa discesa verticale è il mito di Sisifo, raccontato nell’omonimo libro di Camus che Drake teneva sul comodino nell’ultimo periodo della propria vita (“Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe”).

Drake era molto fiero di Pink Moon, lo riteneva un’immagine di sé nitida, l’ultima parola possibile da consegnare al mondo in forma musicale. La perfetta convergenza di parole, suono e voce. Ed è proprio in questa seconda metà del libro, dedicata all’esegesi dei singoli brani, che Speranza compie il suo capolavoro andando lentamente a disgregare la forza di gravità del biografismo che si è cristallizzato attorno a Drake. Come? Trasformando quella che sarebbe una normale e scontata discesa negli inferi di una depressione curata malissimo, in una levità che ci costringe ad alzare lo sguardo (vi, avrebbe detto Nick Drake). Rendendo materiche le canzoni e regalandoci una comprensione inedita di testi e del disco nel suo insieme.

Scopriamo con l’autore che Pink Moon rivela una bellezza tutt’altro che cupa, dischiudendo un bagliore luminoso che male si accosta al canone biografico che ci ha tenuti schiavi di un’unica immagine, quella dell’artista disperato e del cantautore sfinito dalla stanchezza di vivere. Non a caso, il disco si apre con la rappresentazione di un’incombente luna rosa, quella del solstizio d’estate che apparentemente viene a portarci tutti nel buio della notte (Pink Moon). La luna che fa sbocciare rapidamente tutti i fiori che si tingono di rosa (phlox), che coincide con l’inizio di un nuovo ciclo vitale. L’inizio di ciò che ci (vi, avrebbe detto Drake) porterà tutti alla morte. Ma la morte è solo un passaggio verso una nuova resurrezione. E infatti, il disco si conclude con la trasfigurazione dell’oscurità nell’evocazione di un’alba luminosa che ci chiama a rinascere (From The Morning). Quell’alba che Drake non ha potuto vedere, forse suo malgrado, la mattina del 25 novembre del 1974, è già tutta in questo disco. “La teoria delle forme è una teoria della trasformazione”, per dirla con Goethe.

Esiste un modo migliore per raccontare l’essenza (o, meglio, il destino) della vita di ognuno?

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Ennio Speranza
Nick Drake e Pink Moon, una disgregazione
Galaad Edizioni
Pagg. 143 – € 15.00