«Disegnare con il pensiero il nostro futuro»: la fiaba fantascientifica di un arboricolo, di Lorenzo Gafforini

Nascita di un percorso poetico verso la fantascienza.

Giovanni Peli prosegue la sua incursione in ambito fantascientifico con Fermate la produzione! Diario di un arboricolo. Percorso iniziato con il testo La vita immaginata (Lamantica Edizioni, 2020) e continuato con la scrittura di Sulla Soglia (Calibano Editore, 2020) con Stefano Tevini. L’esperienza catartica che spinge l’Autore all’approfondimento del genere, apparentemente lontano della sua poetica, ha inizio con la pandemia da Covid-19. Ne La vita immaginata – un eccellente esempio di commistione fra poesia e prosa – il tema principe dell’opera è il prevalere graduale e inesorabile della natura sul tessuto urbano. «Torneranno i lupi e gli orsi in città / falchi poiane marmotte camosci / i cervi fra le auto parcheggiate / […] / il tempo scorrerà senza misura / solo il buio della notte detterà legge / sui prati e gli alberi cresciuti». La reclusione o – per parafrasare il testo – l’“anestetizzarsi reciproco” porta inevitabilmente a una distorsione temporale. I ricordi si sovrappongono a momenti quotidiani, producendo un impulso epifanico sotto forma di prosa poetica. Testo autobiografico e riflessivo – non privo di colti riferimenti saggistici –, La vita immaginata ha come ambientazione Brescia, il luogo di residenza dell’Autore. Ed è sempre la città lombarda ad essere lo sfondo di Sulla soglia, dove Peli e Tevini tratteggiano una “distopia al contrario”, dove i buoni hanno vinto, ma a scapito di qualcosa: la legge più ferrea e difficile da accettare è la somministrazione dell’eutanasia obbligatoria al sessantaquattresimo anno di età. Anche qui la natura ha prevalso su alcuni quartieri cittadini. Il futuro prospettato non ha nulla di sensazionalmente futuristico, dove la tecnologia prenda il sopravvento concretizzandosi in strutture o mezzi di trasporto eccezionali. Anzi, la tecnocrazia nei testi di Peli è sempre stigmatizzata nelle sue ripercussioni consumistiche, influendo capillarmente sulle nostre vite nel quotidiano. Si pensi alla trovata della pillola che induce al sonno per alcune ore per risparmiare le risorse planetarie, oppure all’arrivo sul mercato di carne clonata, accanto agli onnipresenti succedanei veg in Sulla soglia. Come pure non vedremo mai edifici spettrali e surreali e macchine volanti come ci hanno abituato certi libri e/o lungometraggi. La fantascienza dell’Autore è senz’altro più discreta, sicuramente più poetica. Una finestra originale su un futuro tanto possibile quanto foriero di riflessioni sulla natura umana. Se in Fermate la produzione! ricorrono gli elementi caratteristici dei lavori precedenti, questa volta Peli riesce a creare un’opera in bilico fra il genere fantascientifico e la fiaba.

Diario di un arboricolo del 2078.

Un canto nostalgico per un futuro mai conosciuto, una forte critica ad ogni sistema precostituito e un atto d’amore incondizionato verso noi stessi e il diverso. Come giustamente evidenzia Flavio Santi nella quarta di copertina, questo romanzo rientra nella classica tradizione fantascientifica italiana, senza sacrificare tuttavia la cifra stilistica dell’Autore. Come già accennato, la prosa poetica caratterizza l’intera narrazione. La costituzione in brevi capitoli – alcune volte addirittura di un paio di righe – conferiscono al testo un ritmo unico. Questa forma non è estranea a Peli che l’aveva utilizzata in parte, oltre che ne La vita immaginata, anche in Onore ai vivi e soprattutto nel suo primo romanzo, Il candore. Come suggerisce il sottotitolo, le pagine potrebbero essere quelle di un diario strappato. Il protagonista lascia che i propri pensieri fluiscano liberamente, rivelando le sue convinzioni senza però abbandonarsi totalmente ad esse, in una graduale derealizzazione causata da uno sfasamento temporale, non si sa se endogeno o frutto di un rivolgimento planetario. Scarcerato dopo aver scontato una pena per atti sovversivi, il narratore – di cui non conosciamo il nome – si trova catapultato in un mondo che non gli appartiene e con il quale, forse, non si è mai integrato. Pieno di rabbia e frustrazione, con riflessioni ciniche e micidiali, tratteggia il volto di una società ingrata, dissociata da qualsiasi rapporto umano. Una struttura che, ormai, vede ai suoi apici gli ispettori sanitari e gli ingegneri elettronici, tanto che le professioni umanistiche o artigiane sembrano del tutto dimenticate. Siamo nel 2078 e il narratore, per coerenza anarchica, decide di rifugiarsi sugli alberi e vivere in strettissima comunione con la natura. Da qui l’avvio del diario di un arboricolo: da un iniziale rifiuto dell’introspezione e dall’incapacità di saldare le esperienze del passato, per proiettarsi in una vita futura dove ogni scenario è inaspettatamente possibile.

Dal luddismo ad Anna.

Il protagonista si rifà alla tradizione luddista, tanto da citare direttamente il movimento ispirato dal leggendario Ned Ludd. «Mi addormentai appagato come un puro animale, mi addormentai pensando ad un altro futuro, pieno di vigore illusorio, pensando di formare una nuova terra, che da Piazzale Arnaldo occupasse tutto il territorio fino in fondo a Viale Venezia, la contea di Ludd, quella in cui ogni abitante ha lottato armato fino ai denti per fermare la produzione, la contea in cui la vegetazione è rigogliosa, e i rami dei pini e dei platani sono ormai entrati nelle finestre degli imbelli umani che non collaborano, che non si accorgono di niente della vita reale, e felici virtualmente ci lasciano fare». In questo passaggio emerge chiaramente il panorama delineato precedentemente, eppure si aggiunge un altro tassello al percorso intrapreso dell’Autore. Sì, perché – come in Sulla soglia – nel libro non vengono chiaramente esplicitate di volta in volta le dinamiche che caratterizzano questo mondo alternativo. Peli dissemina il testo di riferimenti che riprende poi durante l’arco della narrazione. Nel passaggio succitato, ad esempio, si si evocano alcuni soggetti rinchiusi in casa, ignari della vera vita. Infatti, mentre il narratore sposa la causa arboricola ed erra per l’intera città, sperando di costruire qualcosa di nuovo, originale e puro, la maggior parte delle persone sono attaccate alle macchine, ai dispositivi tecnologici. Vivono in abitazioni fatiscenti per totale mancanza di manutenzione, lambite dalla vegetazione che sta riappropriandosi della città. I rami si allungano e sradicano gli edifici, mentre – del tutto ignari – uomini e donne giacciono inerti attaccati ai macchinari di una realtà virtuale. Alimentati artificialmente, diventano esseri mostruosamente grassi che per fattezze ricordano gli abitanti dell’astronave Axiom di WALL•E. E come in un adattamento fisiologico ed evolutivo estremamente accelerato, anche il narratore e i suoi seguaci – in maniera diametralmente opposta – sviluppano singolari capacità: nota che le sue braccia si sono allungate, il petto allargato, e queste mutazioni comportano nuova forza e agilità. Come una sorta di novello e stravagante barone rampante, si trova a saltare di albero in albero, in cerca di risposte per capire meglio come il mondo stia cambiando. Proprio in uno dei suoi tanti pellegrinaggi nelle zone abbandonate della città, il narratore rincontrerà Anna, la sua fidanzata dell’epoca. Anna, ridotta ormai ad un ammasso informe incapace di camminare, verrà tratta in salvo e portata nella colonia degli arboricoli. Ben presto il narratore, tuttavia, si rende conto che la sua amata ha sviluppato dei poteri mentali eccezionali, capaci di distorcere la realtà circostante. Probabilmente gli anni passati a contatto con il casco della realtà virtuale hanno alterato le capacità psichiche della donna, conferendole questa sorta di dono. «Perché Anna, la grassa Anna, era figlia di qualche grasso dio, e, strappatasi da se stessa l’elmetto, aveva continuato ad avere poteri prodigiosi, forse derivanti da qualche applicazione che era passata dal virtuale al reale: qualcuno, dio o ingegnere elettronico, aveva permesso tutto questo». Aneddoto: durante gli anni di carcere del narratore, Anna aveva intrapreso una relazione (virtuale) con un certo Andrea, che sappiamo dai frammenti diaristici essersi suicidato nel 2070, nella crisi identitaria e sensoriale causata dalla disconnessione dai marchingegni. Il narratore intercetta una poesia d’amore e disillusione di Andrea per Anna, in cui colpisce il verso «snaturata normalità»: ebbene, si tratta del testo di una canzone inedita del 2019 di Giovanni Peli, a riprova della consustanzialità delle varie espressioni artistiche del Nostro.

Il popolo del mare.

Il mondo così sconvolto dai cambiamenti vede il maturare di diverse fazioni, non sempre collaborative fra di loro. Oltre alla popolazione inurbata e agli arboricoli, si viene a conoscenza dell’esistenza del “popolo del mare”, che sta abbandonando le coste per colonizzare sempre più l’entroterra. Nonostante anch’essi abbiano una visione ostile verso l’ordine precostituito, sono visti dagli arboricoli come nemici da combattere – o per lo meno da evitare. Gli incontri con queste genti sono il momento sicuramente più favolistico dell’intera narrazione. Mentre Anna e il narratore appaiono come freaks fantascientifici più repellenti che affascinanti, i popoli del mare sono dotati di una bellezza sorprendente. «Dal mare sta arrivando una razza umana mai vista: gli uomini hanno ampi e indistruttibili muscoli pettorali, le donne hanno grossi seni, si coprono le pudenda con stelle marine e hanno capelli bianchi come il latte. Mettono e tolgono con assoluta libertà elmetti verdi fosforescenti che si dice abbiano ricavato sabotando gli elmi che usiamo noi. Questi dispositivi non sono fatti, come i nostri, per vivere un’altra vita, una semplificata ed eccitante vita virtuale, ma per intervenire nella realtà». Il protagonista si rende conto di come questo popolo sia in realtà da studiare e comprendere, consapevole che si tratti di un popolo decisamente più evoluto. Ma il suo atteggiamento è ambivalente: da una parte volenteroso e pronto a costituire qualcosa di proprio grazie a una comunità o anche solo con Anna, dall’altra inevitabilmente attratto dalla solitudine. Incapace di trovare un proprio posto nel mondo, viene isolato dai compagni, e lui stesso li rinnega, in un percorso di autodistruzione, nonostante lo spiccato vitalismo. Solo l’amore per Anna sembra capace di infondere nel narratore ancora fiducia, se non nella società, nell’essere umano.

«L’amore frantuma il cielo in centinaia di pezzi».

Il verso in epigrafe del mistico persiano Jalāl al-Dīn Muḥammad Rūmī – il cui componimento è stato a sua volta musicato dall’Autore – riassume l’intera poeticità e poliedricità del testo presentato. Lo stesso amore di Anna, per tramite dei suoi poteri, altera a tal punto la visione del narratore da essere totalizzante in certi passaggi. I piani della realtà e della finzione si alternano e accavallano producendo una sequenza di immagini coerentemente contrastanti. Dunque, sarebbe riduttivo definire Fermate la produzione! un romanzo breve di fantascienza, oppure una fiaba distopica. Si tratta di una tappa fondamentale di un percorso artistico maturo e completo. Un romanzo capace di suggestionare e impressionare con le sue folgoranti rivelazioni. In un centinaio di pagine, Peli crea un macrocosmo talmente vivido e originale, da far figurare nella mente del lettore il bestiario umano immaginato. Nel suo lirismo, il tempo viene gradualmente distorto fino ad approdare a un finale aperto, ambiguo e a tratti metafisico. I brevi capitoli hanno la capacità singolare di farsi leggere come componimenti istantanei, abbandonati e poi ricomposti. Tuttavia, vi è una struttura narrativa ordita in maniera attenta e calibrata. Un’opera che nella sua brevità mostra come ogni parola sia selezionata in ossequio a un preciso obiettivo narrativo, di tipo emozionale.

 

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