Risalire sul tram che si chiama desiderio

Conversazione sul capitalismo con Elisa Cuter

a cura di Pier Angelo Cantù

Il suicidio di Mark Fisher, a gennaio 2017, aveva lasciato un vuoto incolmabile nelle riflessioni sulla pervasività del capitalismo e sulla sua (im)possibile fine. Raccolti soprattutto nel suo libro più noto, Realismo Capitalista, pubblicato da noi per i tipi di Nero, per quanto pessimisti a oltranza gli alti pensieri di “k-punk” rimangono un humus fertile e più che mai necessario in un’epoca di spersonalizzazione di tutte le identità culturali a cui sia possibile aggrapparsi.

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Ne raccoglie in qualche modo il testimone Elisa Cuter nel suo primo libro, Ripartire dal desiderio (minimim fax) uscito a fine 2020. Critica cinematografica e dottoranda di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg, Cuter dipana le sue riflessioni appoggiandosi alla cinematografia e alle espressioni mediatiche. Le analisi dell’autrice prendono l’abbrivio in un’acuta disamina delle conseguenze, sull’evoluzione dei ruoli del femminile e del maschile, del programma Non è la RAI (1991-1995) in cui alcune lolite telecomandate riscrivevano le dinamiche di costume della società italiota.

A distanza di trent’anni quelle lolite sono cresciute ritagliandosi un ruolo all’interno dei prodotti di consumo, televisivi e non. Alla stessa stregua sono cresciuti altri fenomeni dall’intento “sano” che, nelle loro inquietanti metastasi, sono finite per diventare un supermarket di ideologie a basso valore e basso costo, a uso e consumo di una pletora di menti sperdute, accomodate ai dettami dell’influencer di turno.

Un fenomeno che soffre queste derive è il femminismo, smembrato in una miriade di generi e sottogeneri nei quali non si capisce più quale sia il messaggio ultimo, l’idea o l’obiettivo. Guidati da figure che hanno trovato, più che altro, la loro collocazione nel sistema produttivo che si nutre del substrato etico, gli sforzi ideali sembrano preoccuparsi più delle declinazioni di genere, facendo inciampare anche il politically correct in pratiche esasperate come la Cancel Culture, o nelle crociate (rigorosamente sponsorizzate) di una liberalizzazione sessuale in cui il corpo diventa paradossalmente il prodotto stesso con cui veicolare messaggi non sempre a fuoco.

In questa lotta di confine, il rapporto uomo-donna con le sue necessarie asimmetrie è uno degli aspetti che ne viene fuori con le ossa rotte. Un eccesso di contrazione identitaria che ha portato contemporaneamente la donna a ritagliarsi il comodo ruolo di vittima, e l’uomo a un’inesorabile (e pericoloso) processo di femminizzazione. Le denunce per molestie sessuali saranno presto soppiantate da denunce per modestie sessuali.

Il libro di Cuter ha molti pregi e altrettanti difetti. Entrambi ben visibili e anche dichiarati, specie i secondi. In un mondo in cui le riflessioni sono appiattite su uno status quo di preoccupante superficialità, l’autrice procede in un vortice continuo di rovesciamenti di fronte e salti di paradigma, costringendo il lettore a seguirla su una sorta di ottovolante filosofico senza rinunciare alle evidenti contraddizioni, anzi, utilizzandole come elemento di sviluppo.
Il pregio più evidente del libro è quello di tentare di andare in profondità, laddove molti discorsi rimangono sempre off limits per uno strano adeguamento ai diktat del politically correct o, peggio, al conformismo di un’elegante censura preventiva sostenuta da ideologie “sane” solo all’apparenza. Quella che Nick Cave ha recentemente descritto così:

“Il rifiuto della Cancel Culture di affrontare idee sconfortanti ha un effetto asfissiante sull’anima della società. La creatività è un atto che può scontrarsi con alcune delle nostre credenze più fondamentali. E nel farlo porta avanti nuove e fresche maniere di vedere il mondo. Questa è la funzione e la gloria dell’arte e delle idee. Una forza che trova il suo senso nella cancellazione di queste difficili idee intralcia lo spirito creativo della società e va a colpire la complessa e diversificata natura della sua cultura”.

Per smarcarsi da questi rischi e per allargare il campo visivo anche alle palesi contraddizioni che rimarrebbero altrimenti sfocate, Cuter mette al centro il tema del desiderio (non solo quello fisico) come baricentro attorno cui ristabilire un ordine possibile; o almeno come filo rosso capace di spingere l’individuo fuori da sé stesso, verso l’altro quindi, inteso come personale e sociale. Così lo descrive nel libro:

“È questo quello che io chiamo desiderio: quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra soggetto e oggetto. Questo rapporto tra soggetto e oggetto è un rapporto che esiste tra persone, tra persone e cose, e soprattutto all’interno delle persone stesse. È il rapporto che intercorre tra il sé e l’altro – laddove anche il sé e molto spesso un altro per noi. Il desiderio, anzi, è proprio quello che ci svela di non essere un tutto conchiuso, un individuo isolato. È quello che ci fa scoprire che ci sono delle cose che non dipendono da noi, che non possiamo decidere a priori. Cose che semplicemente ci accadono, proprio come ci accade di sentirci attratti da qualcuno, di desiderare qualcosa. Si può sperare che questo conflitto resti confinato esclusivamente all’ambito privato dell’esistenza umana? Sarebbe un obiettivo politico utile? O e piuttosto il fatto che questo conflitto esondi dal sessuale, e si riversi anche sulla società tutta, ad avere un valore politico?”

Abbiamo avvicinato Elisa Cuter per proseguire direttamente con lei alcune riflessioni presenti nel libro. L’intervista che segue è il contenuto fedele del nostro dialogo.

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Partiamo dal cinema, che è il tuo principale campo d’azione. Come nasce il tuo interesse per la critica cinematografica e come definiresti il tuo stile personale in questo lavoro?

Quando studiavo filosofia in triennale a un certo punto diedi un esame di cinema: ero felice come una pasqua e il mio ragazzo di allora mi disse “beh potresti studiare cinema alla specialistica”. Io gli risposi indignata: “ma non può mica essere sempre domenica!” Fortunatamente ho cambiato idea, mi sono convinta che invece dovrebbe eccome essere sempre domenica e sono andata a Berlino a studiare Film Studies, e nel frattempo ho iniziato a scrivere recensioni, prima per una piccola rivista dell’Università di Torino, poi su Filmidee che anche grazie alla summer-school di critica che organizzava è stata la prima vera palestra.

È bello che mi chiedi di stile riguardo alla critica, si parla pochissimo ormai di approcci critici, e anche io non ne avevo uno definito, il che non è necessariamente un male. Solo che essendo un tema poco discusso, quello degli approcci critici, si viene influenzati senza saperlo da quelli dominanti, quindi all’inizio i miei pezzi avevano un approccio molto contenutistico, quasi di critica dell’ideologia, di eredità dei cultural studies e dalla critica femminista statunitense. Non rinnego quella fase, che ancora mi influenza, ma adesso cerco di concentrarmi di più anche sull’analisi del testo filmico senza forzarlo, che alla fine è anche la parte più interessante di questo lavoro.

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Cinema e desiderio, soprattutto al femminile, è un connubio sviscerato molto bene nella cinematografia degli anni ’70. Penso a Bergman, Altman e altri. Con molte derive sull’emancipazione, sull’identità affettiva, sul piacere.
Cosa si è perso, ed eventualmente cosa si è guadagnato, nell’evoluzione del cinema di oggi e della sua capacità di raccontare e anticipare il cambiamento dei costumi?

Proprio su Filmidee cinque anni fa avevo scritto un pezzo sulla rappresentazione del sesso nei film e nelle serie recenti, in cui parlavo di come rappresentazione e riflessione su questi temi si fossero segmentizzati sempre di più sulla linea delle aspettative di mercato. È questa la tendenza che vedo: manca un discorso realmente pubblico e collettivo sul desiderio e c’è sempre meno la volontà di riflettere come società su cose che ci turbano, spaventano o mettono in crisi. Sempre più persone (e questo è un bene) sono consapevoli delle proprie aspettative e dei propri confini in materia sessuale, ma da questa consapevolezza fanno derivare la conseguenza che su queste tematiche un’opera (di finzione o meno) dovrebbe rispecchiare queste convinzioni, e quindi c’è un approccio più normativo, pronto a bollare come problematici certi discorsi e a non ascoltarli nemmeno, da un lato o dall’altro.

In che modo il cinema entra nei frattali delle tue riflessioni dando qualche chiave di lettura per comprendere i numerosi stimoli presenti nel tuo libro?

Nel libro uso molto il cinema perché questa è la formazione che ho io, ma ne faccio un uso un po’ strumentale, nel senso che non analizzo i film come farei nel mio lavoro accademico: mi concentro sui contenuti e i messaggi più che sulla forma, per tornare a quello che dicevo nella prima risposta. Potrei usare anche dei libri, o altri tipi di comunicazione, forse. Eppure il mezzo audiovisivo ha lo stesso una sua centralità nella mia riflessione che è così legata all’immagine, perché lo è la nostra società. Quindi quello che vediamo ha un impatto maggiore a livello di inconscio collettivo rispetto a quello che diciamo, pensiamo, raccontiamo, in un certo senso. Questo forse è uno dei motivi per i quali mi interesso di cinema e per cui il cinema o altri mezzi audiovisivi non potevano che costituire il mio materiale nel libro.

Cosa ne pensi del revisionismo a posteriori che sta riscrivendo (e censurando) la storia evolutiva dei costumi rappresentata dalla cinematografia?
Non è un po’ superficiale marchiare oggi un film come Grease di maschilismo fino a escluderlo dai palinsesti?

Premetto che in realtà le notizie su questo tipo di censura vengono molto gonfiate dai media e puntano a creare una polarizzazione su questi temi, o a creare pubblicità a certi titoli finiti in fondo alle liste dei più visti sulle piattaforme. Nessuno ha mai voluto escludere Grease dai palinsesti, che io sappia, e la decisione di mettere la famigerata introduzione sul razzismo a Via col vento è stata una mossa di marketing molto scaltra da parte di HBO, che ha sicuramente incrementato le visioni del film e fatto nuovamente parlare di un film che le generazioni più giovani considerano un polpettone sorpassato. Quindi, certo, per me tacciare Grease di maschilismo è pura follia, soprattutto perché per me, crescendo, è stato praticamente un manifesto femminista grazie alla figura di Rizzo (Stockard Channing). È ovvio che bisogna leggere le opere nel loro contesto, a volte anche contro il loro stesso messaggio esplicito, come un arsenale di significati in cui navigare con consapevolezza critica (cosa che ci stiamo disabituando a fare in un’epoca in cui vogliamo che i prodotti culturali che consumiamo siano sempre perfettamente in linea con le nostre convinzioni etiche). Ma allo stesso tempo anche gridare alla dittatura del politicamente corretto rischia di mancare il bersaglio e non capire che il problema, materialisticamente, è sempre il mercato, che si appropria della battaglia più vantaggiosa al momento, sensata o meno che sia.

Femminismi, capitalismo, desiderio. Quale tra questi elementi suggerisci come baricentro per attivare i cambi di paradigma auspicati nel libro?

Si tende a pensare che il capitalismo ci abbia dato “troppa libertà”, e che quindi dovremmo trovare nuovi margini, nuovi limiti, ad esempio nel rispetto dell’altro o nella responsabilità. Lo pensano i conservatori ma anche tanta sinistra. Invece secondo me mettere il desiderio al centro della riflessione permette di leggere il capitalismo come un sistema in cui nessuno è veramente libero: l’imposizione a guadagnare, accumulare, proteggere quanto si è accumulato è quanto di più limitante possa esserci, è esattamente la morte del desiderio. Pensiamo a un rapporto erotico/sentimentale basato su questa dinamica: farsi in quattro per elemosinare attenzioni, e poi diventare paranoici e possessivi verso la libertà dell’altro – è un rapporto da incubo, una distopia! Secondo me riflettere sul desiderio è il primo passo per accorgersi di quanto il capitalismo limita la nostra libertà d’azione, le nostre potenzialità, è un modo per “disinnamorarsene”, diciamo, e per smettere di credere che non ci sia alternativa.

“Ripartire dal desiderio” si chiude con la tua ammissione di non essere riuscita, in fondo, ad andare a parare quasi da nessuna parte. Eppure il terreno viene smosso in continuazione, rovesciando schemi anche in modo provocatorio. A mio parere è proprio questo il pregio del libro.
Che reazioni hai avuto rispetto a quelle che ti aspettavi?

Mi ha sorpreso l’interesse che ha suscitato: non pensavo davvero che qualcuno avesse voglia di leggere una lista di dubbi e problemi, specie in una fase in cui tanta gente ha un bisogno estremo (anche comprensibile) di soluzioni. Eppure mi sembra che abbia dato voce a dubbi che non erano solo miei, ma che in pochi avevano espresso, forse perché meno incoscienti di me! Non parlo di incoscienza nel senso del rischio di esporsi a critiche, ma del fatto che può sembrare stupido, strategicamente, avanzare dubbi su movimenti e passi avanti che fondamentalmente si condividono, che è quello che faccio io. Eppure il riscontro che ho avuto finora mi ha confermato che c’è assolutamente spazio per un dibattito interno, e che non esprimersi per timore di strumentalizzazioni varie è una forma di rassegnazione, qualcosa che fortunatamente non mi appartiene.

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Nel libro è presente una forte critica ad alcune deviazioni del femminismo, nell’appiattimento delle identità e nell’abbraccio mortale con il capitalismo. A prima vista però, le pluralità e la polverizzazione delle espressioni dei femminismi sembrano procedere con toni trionfalistici ed evidenti commistioni commerciali. Perché non si riesce ad arrestare questa frammentazione autolesionistica?
Quale può essere il linguaggio comune per procedere in una unità di intenti che possa essere accolta senza riserve anche dall’avversato universo maschile?

Questa potrebbe essere una di quelle soluzioni di cui sopra che io temo di non avere! Posso solo azzardare delle ipotesi: una di queste è appunto la ricerca di un piano comune sul piano sociale, che implica abbandonare senza rimpianti l’essenzialismo su cui si basava la divisione di genere, insistere su quello che ci accomuna piuttosto che sulle differenze, decostruendole grazie alla riflessione sulla storia e i condizionamenti che sono nati da esigenze estranee a quelle degli individui, perché imposti dal capitale.

La femminizzazione del maschio da una parte e il vittimismo della femmina dall’altra, hanno prodotto lo svuotamento di un territorio/laboratorio di scambio di identità forti e asimmetriche, terreno fertile dove si esprime il desiderio. Sembra che questo territorio sia stato lasciato all’esibizione un po’ consumistica dei corpi, appiccicando ad essi una qualche traballante ideologia di liberazione. Che ne pensi di questo fenomeno, che tra l’altro si presta a essere ulteriormente fagocitato dal capitalismo?

Come potrai intuire dalla mia risposta precedente, io non penso che lo scambio tra identità forti e asimmetriche sulla base del genere fosse un modello che permetteva uno scambio desiderante, anzi. Penso che sia possibile il desiderio laddove c’è sì un conflitto, ma tra soggetti desideranti, più che tra identità stabili e genderizzate. Se vogliamo, un conflitto tra identità “deboli”, o forti abbastanza da lasciarsi travolgere, trasformare e mettere in discussione dal desiderio che esperiscono. L’intrusione della logica capitalistica nelle dinamiche del desiderio crea invece proprio questa illusione di stabilità dell’identità che però guarda caso va continuamente affermata, curata, esibita, stabilizzata. Alle volte proprio anche attraverso quelle che giustamente chiami ideologie di liberazione.

In tutta questa confusione di riflessioni avvitate e senza chiare vie d’uscita, peraltro presenti anche nel libro, e in un contesto in cui famiglia, scuola e comunità hanno abdicato, chi sono (se ci sono) le figure educative in grado di sostenere un percorso di consapevolezza degli adolescenti?

Onestamente non ne ho idea, quello che posso dirti è che mi dispiace l’abuso della retorica generazionale stile “ok boomer”. Quello tra generazioni mi sembra un conflitto falso tanto quello tra i generi. Da marxista non riesco a non vedere come vero conflitto che plasma la storia quello tra le classi, e le altre divisioni come dinamiche che alla lunga continuano a sostenere l’ideologia dominante. Quindi sono molto contenta che emergano anche figure di giovani (penso ovviamente a Greta Thunberg, ad esempio) a cui gli adolescenti possono guardare, a patto che l’adesione emotiva e politica a questi modelli serva a dargli l’idea che anche loro possono essere attori autonomi abbastanza da elaborare un pensiero critico, e a crearsi un pantheon di figure che in qualche modo gli parlano, e con cui loro stessi si sentano all’altezza di dialogare indipendentemente dall’età.

Che ne pensi, se è possibile dirlo in sintesi, delle espressioni della sinistra italiana, ammesso che ce ne siano? In che modo ripartire dal desiderio può rimettere in moto anche il desiderio di una socialità più concretamente equa, accogliente, giusta?

Penso che vorrei che esistesse una sinistra italiana! Sia in parlamento che a livello di discorso pubblico quello che riceviamo è una posizione, quando va bene, blandamente progressista, ma non è più un discorso di sinistra, in nessun senso. Io penso che non ci sia contraddizione tra desiderio individuale e una società di uguali, anzi. La retorica della scarsità, dell’austerity che anche la “sinistra” parlamentare ci propina ora è già frutto della logica neoliberale, cioè della rassegnazione.